Ieri Papa Francesco si è recato sui luoghi di Don Tonino Bello, terziario francescano e vescovo. In corso di beatificazione è sicuramente uno dei miglior esempi di francescanesimo dell’ultimo secolo.

Il discorso ad Alessano: pace, poveri, contempl-attivi, umili

Alla preghiera sulla tomba il Papa fa riferimento all’inizio del suo discorso. E dice che quella tomba «non si innalza verso l’alto, ma è tutta piantata nella terra: don Tonino seminato nella sua terra». Quindi da questa terra il Papa lancia un nuovo appello per la pace nel Mediterraneo, così cara al vescovo di Molfetta morto 25 anni fa. Una terra che egli «chiamava “terra-finestra” – sottolinea Francesco nel discorso di Alessano -, perché dal Sud dell’Italia si spalanca ai tanti Sud del mondo, dove i più poveri sono sempre più numerosi mentre i ricchi diventano sempre più ricchi e sempre di meno. Siete una “finestra aperta, da cui osservare tutte le povertà che incombono sulla storia”, ma siete soprattutto una finestra di speranza perché il Mediterraneo – fa notare il Pontefice -, storico bacino di civiltà, non sia mai un arco di guerra teso, ma un’arca di pace accogliente».

Don Tonino uomo di pace, dunque. E così papa Bergoglio, con rapide pennellate ne ricorda il suo impegno incessante contro tutte le guerre. A partire da quelle più vicine. «Agiva localmente per seminare pace globalmente – dice -, nella convinzione che il miglior modo per prevenire la violenza e ogni genere di guerre è prendersi cura dei bisognosi e promuovere la giustizia. Infatti, se la guerra genera povertà, anche la povertà genera guerra. La pace, perciò, si costruisce a cominciare dalle case, dalle strade, dalle botteghe, là dove artigianalmente si plasma la comunione. Diceva, speranzoso, don Tonino: “Dall’officina, come un giorno dalla bottega di Nazareth, uscirà il verbo di pace che instraderà l’umanità, assetata di giustizia, per nuovi destini”».

Don Tonino vicino ai bisognosi. «Capire i poveri era per lui vera ricchezza – ricorda il Pontefice -. Aveva ragione, perché i poveri sono realmente ricchezza della Chiesa. Ricordacelo ancora, don Tonino, di fronte alla tentazione ricorrente di accodarci dietro ai potenti di turno, di ricercare privilegi, di adagiarci in una vita comoda». Quindi aggiunge: «Una Chiesa che ha a cuore i poveri rimane sempre sintonizzata sul canale di Dio, non perde mai la frequenza del Vangelo e sente di dover tornare all’essenziale per professare con coerenza che il Signore è l’unico vero bene. Don Tonino ci richiama a non teorizzare la vicinanza ai poveri, ma a stare loro vicino, come ha fatto Gesù, che per noi, da ricco che era, si è fatto povero». Don Tonino, sottolinea ancora Francesco, «sentiva il bisogno di imitarlo, coinvolgendosi in prima persona, fino spossessarsi di sé. Non lo disturbavano le richieste, lo feriva l’indifferenza. Non temeva la mancanza di denaro, ma si preoccupava per l’incertezza del lavoro, problema oggi ancora tanto attuale. Non perdeva occasione per affermare che al primo posto sta il lavoratore con la sua dignità, non il profitto con la sua avidità».

Papa Bergoglio continua ad aggiungere pennellate su pennellate al ritratto di monsignor Bello. Era un contempl-attivo, dice con un gioco di parole tipico del vescovo. «Caro don Tonino – dice il Pontefice – ci hai messo in guardia dall’immergerci nel vortice delle faccende senza piantarci davanti al tabernacolo, per non illuderci di lavorare invano per il Regno. E noi ci potremmo chiedere se partiamo dal tabernacolo o da noi stessi. Potresti domandarci anche se, una volta partiti, camminiamo; se, come Maria, Donna del cammino, ci alziamo per raggiungere e servire l’uomo, ogni uomo. Se ce lo chiedessi, dovremmo provare vergogna per i nostri immobilismi e per le nostre continue giustificazioni. Ridestaci allora alla nostra alta vocazione; aiutaci ad essere sempre più una Chiesa contemplattiva, innamorata di Dio e appassionata dell’uomo».

Infine il don Tonino umile. «In questa terra Antonio nacque Tonino e divenne don Tonino. Questo nome, semplice e familiare, che leggiamo sulla sua tomba, ci parla ancora. Racconta il suo desiderio di farsi piccolo per essere vicino, di accorciare le distanze, di offrire una mano tesa. Invita all’apertura semplice e genuina del Vangelo. Il nome di “don Tonino” – aggiunge il Pontefice – ci dice anche la sua salutare allergia verso i titoli e gli onori, il suo desiderio di privarsi di qualcosa per Gesù che si è spogliato di tutto, il suo coraggio di liberarsi di quel che può ricordare i segni del potere per dare spazio al potere dei segni. Don Tonino non lo faceva certo per convenienza o per ricerca di consensi, ma mosso dall’esempio del Signore. Nell’amore per Lui troviamo la forza di dismettere le vesti che intralciano il passo per rivestirci di servizio, per essere “Chiesa del grembiule, unico paramento sacerdotale registrato dal Vangelo”». Una Chiesa, rimarca il Pontefice, «non mondana ma per il mondo». Una Chiesa «monda di autoreferenzialità» ed «estroversa, protesa, non avviluppata dentro di sé; non in attesa di ricevere, ma di prestare pronto soccorso; mai assopita nelle nostalgie del passato, ma accesa d’amore per l’oggi, sull’esempio di Dio, che ha tanto amato il mondo».

La conclusione del Papa è un invito a imitare monsignor Bello, affinché «la sua profezia sia attuata». «Non accontentiamoci di annotare bei ricordi, non lasciamoci imbrigliare da nostalgie passate e neanche da chiacchiere oziose del presente o da paure per il futuro. Imitiamo don Tonino, lasciamoci trasportare dal suo giovane ardore cristiano, sentiamo il suo invito pressante a vivere il Vangelo senza sconti. È un invito forte rivolto a ciascuno di noi e a noi come Chiesa. Ci aiuterà a spandere oggi la fragrante gioia del Vangelo».

Al termine il Papa ha invitato i presenti a recitare un’Ave Maria davanti all’immagine della Vergine de Finibus Terrae che si venera a Santa Maria di Leuca, dove Benedetto XVI si recò in pellegrinaggio dieci anni fa.

L’omelia a Molfetta

Ci sono due «elementi centrali» per la vita cristiana: «il Pane eucaristico e la Parola». Lo ha ricordato il Papa in una omelia intessuta di citazioni di don Tonino. Infatti «senza di Lui, Pane di vita, ogni sforzo nella Chiesa è vano, come ricordava don Tonino Bello: “Non bastano le opere di carità, se manca la carità delle opere. Se manca l’amore da cui partono le opere, se manca la sorgente, se manca il punto di partenza che è l’Eucaristia, ogni impegno pastorale risulta solo una girandola di cose”».

«Vivere per», ha ribadito papa Francesco, «è il contrassegno di chi mangia questo Pane». È il «”marchio di fabbrica” del cristiano». E «si potrebbe esporre come avviso fuori di ogni chiesa». «Sarebbe bello – ha poi aggiunto a braccio rispetto al testo preparato – che in questa diocesi di don Tonino Bello ci fosse questo avviso in ogni chiesa e fosse letto da tutti».

Don Tonino, ha ricordato il Pontefice, «tra voi è stato un Vescovo-servo, un Pastore fattosi popolo, che davanti al Tabernacolo imparava a farsi mangiare dalla gente». Don Tonino «sognava una Chiesa affamata di Gesù e intollerante ad ogni mondanità, una Chiesa che “sa scorgere il corpo di Cristo nei tabernacoli scomodi della miseria, della sofferenza, della solitudine”». Perché, diceva, «”l’Eucarestia non sopporta la sedentarietà” e senza alzarsi da tavola resta “un sacramento incompiuto”».

Il «Pane di vita» è infatti anche «Pane di pace». E il Papa ha ricordato come don Tonino sosteneva che «la pace non viene quando uno si prende solo il suo pane e va a mangiarselo per conto suo». La pace «è qualche cosa di più: è convivialità». È «mangiare il pane insieme con gli altri, senza separarsi, mettersi a tavola tra persone diverse», dove «l’altro è un volto da scoprire, da contemplare, da accarezzare». Perché i conflitti e tutte le guerre «trovano la loro radice nella dissolvenza dei volti». E noi, che condividiamo questo Pane di unità e di pace, ha sottolineato il Pontefice «siamo chiamati ad amare ogni volto, a ricucire ogni strappo; ad essere, sempre e dovunque, costruttori di pace».

Dopo il «Pane» papa Francesco ha parlato dell’altro «elemento centrale» della vita cristiana, «la Parola». Richiamandosi al Vangelo appena proclamato ha invitato a non cadere nell’errore della gente «paralizzata dal discutere sulle parole di Gesù, anziché pronta ad accogliere il cambiamento di vita chiesto da Lui». E don Tonino, «proprio nel tempo di Pasqua, augurava di accogliere questa novità di vita, passando finalmente dalle parole ai fatti». Perciò «esortava accoratamente chi non aveva il coraggio di cambiare: “gli specialisti della perplessità. I contabili pedanti dei pro e dei contro. I calcolatori guardinghi fino allo spasimo prima di muoversi”». Infatti «a Gesù non si risponde secondo i calcoli e le convenienze del momento, ma col “sì” di tutta la vita». Egli «non cerca le nostre riflessioni, ma la nostra conversione: punta al cuore».

Di qui l’invito a «rialzarsi sempre, guardare in alto, perché l’apostolo di Gesù non può vivacchiare di piccole soddisfazioni». L’invito ad «andare, uscire, nonostante tutti i problemi e le incertezze». Ad «essere portatori di speranza pasquale, “cirenei della gioia”, come diceva don Tonino; servitori del mondo, ma da risorti, non da impiegati». Ad essere «”corrieri di speranza”, distributori semplici e gioiosi dell’alleluia pasquale». A imparare l’umiltà. Perché «umile non vuol dire timido o dimesso, ma docile a Dio e vuoto di sé». Allora anche le umiliazioni «diventano provvidenziali, perché spogliano della presunzione e permettono a Dio di rialzarci». E «la Parola di Dio fa così: libera, rialza, fa andare avanti, umili e coraggiosi al tempo stesso». Non fa di noi «dei protagonisti affermati e campioni della propria bravura, ma dei testimoni genuini di Gesù morto e risorto nel mondo».

Infine Papa Francesco ha esortato a «vivere ciò che celebriamo!». Così, «come don Tonino, saremo sorgenti di speranza, di gioia e di pace».

fonte: Avvenire