Carissimi fratelli e figli, vorrei, con questa mia lettera, raggiungere ognuno di voi; vorrei pure che essa non avesse nulla di convenzionale e che in modo non convenzionale fosse recepita. Chiedo troppo? Quel che desidero è di meglio esplicitare un pensiero enucleato già il 12 giugno scorso, al mio ingresso in diocesi. In quell’occasione, infatti, chiedevo a tutti voi di contribuire a una crescita reciproca, che si realizzerà “solo nell’unità di tutto il corpo ecclesiale”; un’unità da perseguire “non mortificando le differenze, ma valorizzandole nella comunione: camminando da soli, in ordine sparso, non andremmo lontano; serrando i ranghi in piccoli gruppi rischieremmo di scadere in dannose consorterie; dilaniandoci a vicenda faremmo il gioco dell’avversario, di colui che chiamiamo diavolo e satana (Ap 12, 9). Realizzando tante opere e iniziative potremmo forse dare l’immagine di una Chiesa efficiente, ma solo facendo un’autentica esperienza di comunione riusciremo davvero a essere una Chiesa efficace”.

LA LEZIONE DEL VANGELO

Una tale convinzione trae forza in primo luogo dall’agire di Gesù: egli, infatti, dopo aver chiamato a sé (proskaleitai) i Dodici, “prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri” (Mc 6,7). Una scelta che il Maestro confermò più tardi, quando, approssimandosi ormai la sua Pasqua, “prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme”: dopo che in un villaggio di samaritani “non vollero riceverlo”, il Maestro e i suoi “si misero in cammino verso un altro villaggio” e lungo quella strada dettò le condizioni per la sequela (Lc 9,51-62). “Dopo questi fatti – prosegue l’evangelista – il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi” (10,1). Il Signore anzitutto convoca, chiama a sé: è Lui, dunque, che sceglie i propri inviati; a costoro non resta che obbedire e andargli incontro. Ciò vuol dire che prima di compiere una qualsiasi missione, noi dobbiamo rivolgerci a Lui, stabilire con Lui un rapporto intenso, profondo, duraturo, perché sarà Lui a indicarci dove andare; né dovremo riferire elucubrazioni nostre, ma la sua Parola, che sola ha il potere di sanare e riedificare. A Geremia, che tentava di giustificarsi, il Signore disse: “Non dire: «Sono giovane». Tu andrai da tutti coloro a cui ti manderò e dirai tutto quello che io ti ordinerò. Non aver paura di fronte a loro, perché io sono con te per proteggerti” (Ger 1,7-8). La modalità missionaria si esplica così in un’evangelizzazione itinerante e in un agire che non è solitario, in quanto implica uno stile di comunione. Gli apostoli, come pure i settantadue discepoli, non dovevano andare per 4 il mondo da soli, ma camminare insieme, a due a due. “L’andare agli altri deve testimoniare l’amore vicendevole. Va realizzato insieme, accogliendo anzitutto nel fratello missionario che cammina al proprio fianco, la presenza salvifica del Signore nel cui nome entrambi sono mandati. Questa testimonianza della carità diventa al contempo testimonianza della verità: la bella notizia è attestata congiuntamente da due testimoni. Emerge una missione da realizzare insieme, superando le tentazioni dell’individualismo e dell’agire solitario” (E. Bosetti). Non dobbiamo neppure dimenticare che nel cenacolo Gesù pregò perché i suoi fossero tutti “una sola cosa”, perfetti nell’unità, affinché il mondo credesse in Lui (Gv 17,21-23). Fu il suo testamento, recepito come tale dalle grandi tradizioni spirituali che hanno segnato la storia dell’Occidente cristiano. San Benedetto non ha stabilito forse che, nell’eventualità di un contrasto con il fratello, il monaco debba ristabilire la pace “prima del tramonto del sole” (Regola IV,73) e che i monaci siano tenuti a obbedire non solo all’abate, ma in maniera vicendevole anche ai compagni (LXXI,1), così da giungere “tutti insieme alla vita eterna” (LXXII,12)? E nella cosiddetta Regola non bollata, san Francesco non chiedeva ai frati di manifestare l’uno all’altro le proprie necessità, di amarsi e nutrirsi scambievolmente come una madre nutre e cura il proprio figlio (IX,10-11), invito poi ripetuto nella regola bollata da Onorio III, “poiché se la madre nutre e ama il suo figlio carnale, quanto più premurosamente uno deve amare e nutrire il suo fratello spirituale? (VI,8)”.

CAMMINARE INSIEME NELLA CHIESA

Cosa vuol dire, allora, camminare insieme nella Chiesa? Significa dare, innanzitutto, una forte testimonianza di unità: Agostino dice che Cristo “ha fatto dei due un solo popolo (cf. Ef 2,14), affinché amassimo l’unità e avessimo l’instancabile carità” (Discorsi 200,4). Un’unità che richiede da noi capacità di accoglienza e di perdono, di comprensione e di aiuto, senza mortificare le diversità, anzi valorizzandole. Quest’unità arreca il dono di una grande pace, “che non possono pretendere di possedere né i vincoli più stretti di amicizia, né la somiglianza più perfetta di carattere se non sono in armonia con la volontà di Dio” (Leone Magno, Discorsi 95,9), poiché solo in “sua voluntade è nostra pace” (Dante, Paradiso III, 85). Un’unità che è, perciò, dono e al tempo stesso conquista, nella risposta che – traendo forza dallo Spirito – ognuno di noi è chiamato a dare a Dio e alla sua grazia. Sento che la prima unità a cui siamo chiamati è quella tra il vescovo e i sacerdoti. Il Concilio chiede ai sacerdoti di riconoscere nel vescovo “il loro padre” e di obbedirgli “con rispettoso amore” e chiede al vescovo di considerare i sacerdoti, “suoi cooperatori, come figli e amici” (Lumen Gentium 28). Ciò pretende esercizio da ambo le parti: il vescovo deve vivere la sua paternità e i sacerdoti la loro figliolanza, assumendosi ognuno le proprie responsabilità. È un esercizio lungo, a volte duro: padri non lo si nasce, figli sì, ma nell’un caso come nell’altro le due condizioni non sono sempre facili da sperimentare; e tuttavia, possiamo forse rinunciarvi? Farlo vorrebbe dire compromettere in serio modo la fecondità spirituale di una Chiesa locale. Poiché, però, i sacerdoti sono uniti tra loro “da un’intima fraternità sacramentale” (Presbiterorum Ordinis 8), il legame con il vescovo non è di per sé sufficiente se non è supportato da un legame di comunione vera tra i sacerdoti stessi: l’efficacia o l’inefficacia del lavoro pastorale trova proprio in ciò la sua radice. Il discorso si allarga poi ai diaconi, “ai quali sono imposte le mani «non per il sacerdozio, ma per il servizio»”, che esercitano il loro ministero “in comunione con il vescovo e con il suo presbiterio” (Lumen Gentium 29), e alla vita religiosa, maschile e femminile, con la quale il clero diocesano è chiamato a sviluppare “un’ordinata collaborazione” (Christus Dominus 35). “Non s’insisterà mai abbastanza – scriveva il cardinale Michele Pellegrino – sull’affermazione che il lavoro pastorale non è un lavoro da franchi tiratori; è un lavoro di Chiesa, deve essere attuato come Chiesa, comunitariamente”. È necessario, infatti, “superare una mentalità individualistica che rende difficile il dialogo e la collaborazione” (Lettera pastorale Camminiamo insieme 21). Parole, purtroppo, ancora attuali! Eppure non ci si può fermare qui, perché sono richiesti passi ulteriori. Anche se “proprio e peculiare” dei laici è il “carattere secolare” (Lumen Gentium 31), e quindi loro campo d’azione è il mondo, essi tuttavia sono spesso “chiamati in diversi modi a collaborare più immediatamente con l’apostolato della Gerarchia” (ivi 33). Laici, religiosi e ministri ordinati debbono perciò camminare insieme, nel pieno rispetto delle diverse vocazioni, senza indebite invasioni di campo (da una parte e dall’altra), nella coscienza che siamo reciprocamente affidati e che la crescita degli uni favorisce anche quella degli altri; dice il grande Agostino che “se vi sono delle buone pecore, vi saranno anche buoni pastori; perché dalle buone pecore si formano i buoni pastori” (Discorsi 46,30). Gli stessi laici, poi, sono chiamati a un dialogo intenso, in obbedienza a una corretta sintassi ecclesiale: nelle parrocchie non possono esservi realtà autoreferenziali; gruppi e carismi debbono interagire tra loro assegnando il primato al tutto rispetto alle parti (un gruppo, ad esempio, non può dare precedenza alle proprie attività quando – in determinati momenti forti – tutta la parrocchia è impegnata in un percorso comune!). Neppure la parrocchia può però diventare una realtà chiusa in se stessa, dal momento che è chiamata a dialogare con le parrocchie vicine per corrispondere insieme alle indicazioni di un percorso diocesano il quale è a sua volta proteso a recepire le indicazioni della Chiesa universale e di quella che è in Italia. Un legame – da ravvivare sempre più – collega dunque il vescovo alla sua Chiesa e una Chiesa particolare al suo vescovo e, attraverso lui, al collegio apostolico e alla Chiesa universale. In definitiva, per riprendere ancora quanto dicevo il 12 giugno scorso, solo facendo “un’autentica esperienza di comunione riusciremo davvero a essere una Chiesa efficace”. Quante volte, infatti, si rischia di strumentalizzare iniziative unicamente per un’affermazione personale o di gruppo, non di rado in alternativa ad altri o ad altre comunità? Non si è più volte verificato, in tante parti del mondo e forse anche dalle nostre, che le feste patronali siano state ispirate al criterio che i festeggiamenti dovessero superare in solennità (e in spreco di denaro!) o perlomeno non dimostrarsi inferiori a quelli della comunità vicina? Di fronte a simili casi viene spontaneo chiedersi: cosa c’entra il Signore in tutto ciò?

CAMMINARE INSIEME ALLA SOCIETÀ IN CUI VIVIAMO

Ma la Chiesa non cammina da sola, non si colloca al di fuori del tempo: vive nel tempo, aperta al territorio circostante e condividendone gioie e speranze, preoccupazioni e angosce (Gaudium et Spes 1). In tal senso, ritengo che la meta assegnata alla nostra Chiesa, quella cioè d’irrobustirsi nell’unità, costituisca anche l’apporto più significativo che la comunità ecclesiale possa dare al territorio in cui vive. Faccio un solo esempio, tuttavia significativo. Premetto che non conosco ancora in modo adeguato la realtà dell’arcidiocesi; posso solo dire, in totale sincerità, di essermene subito innamorato: la bellezza e la ricchezza del territorio e del suo patrimonio artistico-culturale, l’alta qualità dei prodotti eno-gastronomici e artigianali, costituiscono potenzialità notevoli ai fini di una ripresa socio-economica capace di produrre nuovi posti di lavoro in un’area che va progressivamente spopolandosi. Potenzialità che però vengono mortificate dalla debolezza delle infrastrutture: tra queste, salta subito all’occhio la precarietà del sistema viario. Incredibile a dirsi, ma quella centralità che nei secoli passati ha fatto la fortuna di Benevento – posta com’era sull’Appia a metà strada tra Roma e Brindisi, quindi stazione obbligata per quanti si muovevano dall’Urbe verso l’Oriente e viceversa, e inoltre compresa tra due fiumi che garantivano il trasporto veloce delle merci – sembra essere ormai venuta meno, al punto che la città oggi non è facile da raggiungere. A ciò bisogna unire il disagio di un gran numero di piccoli centri: paesi belli e ben tenuti, che possono vantare anche produzioni di eccellenza, ma penalizzati dalle vie di comunicazione (come non pensare a San Bartolomeo in Galdo e ad altri centri del Fortore?). Il punto nodale, però, non è questo, ma un altro che gli si collega direttamente. Mi sono chiesto, infatti: perché la nostra gente assiste impotente a tutto ciò? Perché non fa sentire in modo adeguato la propria voce? Debbo premettere che, da questo punto di vista, ho trovato una continuità sorprendente tra il territorio beneventano e quello pontino. Anche la mia zona di origine, infatti, presenta evidenti carenze strutturali, anche lì si registra una debolezza non solo di proposta, ma di protesta. A Latina e dintorni la radice di tale comportamento va ricercata nella mancanza di un’identità comune; qui ho l’impressione che sia l’esatto contrario, vale a dire che un’identità fortemente marcata, non sempre capace di superare i limiti dei propri confini, rischia di accrescere il tasso di litigiosità e di paralizzare ogni azione comune. Alla fine, il risultato è lo stesso, sia di qua che di là: l’incapacità di fare sistema, di unirsi in un progetto comune, con la conseguenza che ogni azione – anche la protesta – diventa sterile e, malgrado i primi entusiastici clamori, con ben poche possibilità di dare frutto. Una piccola frazione è portata piuttosto a guardare al proprio interesse che non a quello dell’intero Comune e a perseguirlo anche a danno dell’interesse più generale. Si è spinti a salvaguardare le proprie prerogative anziché a fare rete con gli altri. Tali anomalie non risparmiano neppure la città di Benevento, che anche in conseguenza di una storia che per secoli l’ha separata dal territorio circostante, sembra faticare nell’assumere una funzione di guida. In tal senso, trovo attuali alcune riflessioni che l’allora vescovo di Latina-TerracinaSezze-Priverno formulò in tempi ormai non più recenti. Il 1° gennaio 2002, parlando agli amministratori e ai politici, egli infatti dichiarava di ritenere quanto mai necessaria l’adozione di un “assetto operativo connotato dalla solidarietà sinergica”, ciò che stava a significare l’urgenza di “coalizzarsi per non disperdere; convergere evitando pericolose frammentazioni; autonomizzarsi sanamente per evitare dipendenze inopportune” (G. Petrocchi, L’arte di unire, messaggi ai politici, ed. Città Nuova, Roma 2011, p. 23). Quanto gioverebbe anche al nostro territorio il crescere della comunione? Quanto l’avvantaggerebbe il fare gioco di squadra per individuare un obiettivo comune, una priorità d’interesse generale (l’asse viario o altro ancora, purché comunemente condiviso) da perseguire fino al suo raggiungimento? Per non parlare del risparmio di denaro pubblico di cui ci si avvantaggerebbe se enti diversi imparassero a fare rete: quante volte – è un problema di cui quasi tutta, per non dire l’intera Italia soffre! – soggetti differenti operanti all’interno di una stessa realtà (curie diocesane, Comuni, ospedali, scuole…) affrontano i medesimi problemi senza comunicare tra loro, con aggravio di costi e a danno dei risultati? Fare rete, fare gioco di squadra: se riuscissimo nell’intento, tutti ne trarremo vantaggio, in caso contrario tutti saremo destinati a perdere. È una sfida, questa, che la comunità ecclesiale deve vincere anzitutto al suo interno e la cosa non è per nulla scontata!

ALCUNE INDICAZIONI PASTORALI

Avviandomi alla conclusione, non mi propongo di dettare un’agenda, bensì di indicare alcuni criteri e una proposta di metodo atti a tradurre nella pratica pastorale quanto detto finora. Anzitutto, fare anche meno cose, ma farle insieme, a livello sia diocesano che parrocchiale: si assiste, quasi dappertutto, a un proliferare d’iniziative, spesso sovrapponibili l’una all’altra, con un’inevitabile dispersione di energie e di risorse, oltre che dagli esiti inadeguati e demotivanti. In tante diocesi capita sovente che uffici diversi lavorino contemporaneamente a iniziative che avrebbero potuto benissimo convergere con una maggior garanzia dei risultati; lo stesso accade tra parrocchie confinanti e perfino tra gruppi all’interno di una stessa parrocchia. Agire insieme darebbe sicuramente risultati più rilevanti. È necessario poi tener presente che il poco di molti è meglio del molto di pochi. È buona cosa il fare, sporcandosi le mani, ma è cosa ancora migliore far sì che ciascuno faccia la propria parte. L’assumere ogni incarico in prima persona, senza lasciare ad altri il giusto spazio, serve solo a spossarsi fisicamente e spiritualmente, a scavarsi un fossato intorno, lasciandoci alla fin fine soli e forse anche scontenti e lamentosi. Vescovo, sacerdoti, diaconi, religiosi, catechisti, educatori, animatori della vita pastorale non hanno la sintesi dei carismi: debbono piuttosto coltivare il carisma della sintesi, stimolando anche altri ad agire, ad assumersi le proprie responsabilità per diventare protagonisti in prima persona. Neppure bisogna dimenticare che il tutto precede e fonda le singole parti. Per questo, gli impegni diocesani debbono avere la precedenza sugli altri. Così pure, la zona pastorale deve avere precedenza sulla parrocchia e la parrocchia sui singoli gruppi. Si dovrebbe, inoltre, porre la Parola di Dio al centro di tutta l’azione pastorale. Essa, “annunziata dalla Chiesa, esige di essere posta sulla sommità del lucerniere, cioè all’apice dell’onore e dell’impegno di cui la Chiesa è capace” (Massimo il Confessore, Risposte a Talassio, risp. 63): anche per questo il luogo della proclamazione della Parola veniva sempre posto in alto, perché fosse plasticamente visibile il principio teologico che la Chiesa tutta sta sotto la Parola di Dio.

VERSO UNA CHIESA-CORO

Nel chiudere queste riflessioni, v’invito a guardare con fiducia al futuro, evitando sterili lamentele sul presente quanto inutili e poco sagge esaltazioni del passato. Da che mondo è mondo l’uomo deplora l’epoca in cui vive e idealizza un tempo andato che non è più suo. Non avvertiva già l’autore sacro: “Non dire: «Come mai i tempi antichi erano migliori del presente?», perché una domanda simile non è ispirata a saggezza”? (Qo 7,10). Secoli dopo gli faceva eco il santo vescovo d’Ippona: troverai sempre, affermava, “degli uomini che si lamentano dei loro tempi, convinti che solo i tempi dei nostri avi siano stati belli. Ma questi, però, se potessero riportarsi all’epoca degli antenati, non mancherebbero di lamentarsi ugualmente. Se, infatti, tu trovi buoni quei tempi che furono, è appunto perché essi non sono più i tuoi” (Agostino, Discorsi 346/C,1). Da sempre la Chiesa ha trovato difficoltà nel camminare insieme, a motivo del peccato che induce ogni uomo a porsi al centro del mondo, come rivela l’avvertimento lanciato nei primi secoli cristiani dall’autore della Lettera detta di Barnaba: “Non isolatevi, ripiegandovi in voi stessi, come se già foste giustificati; riunitevi, invece, per ricercare l’interesse comune” (IV,10). In forza di ciò, dobbiamo far nostro il monito di sant’Ignazio di Antiochia: ciascuno si sforzi di far “coro, affinché nell’armonia del vostro accordo, prendendo nell’unità il tono di Dio, cantiate a una sola voce per Gesù Cristo al Padre, perché vi ascolti e vi riconosca, per le buone opere, come membra di Gesù Cristo. È necessario per voi trovarvi nell’inseparabile unità per essere sempre partecipi di Dio” (Lettera agli EfesiniIV,2). Se anche solo ci provassimo, però con convinzione, avremmo raggiunto già un notevole risultato! Di cuore vi benedico, nel nome del Signore.

Benevento, 9 ottobre 2016

† Felice vescovo