Da piccoli è la lampada accesa accanto alla testiera del letto. La statuina del presepe con la faccia di bimbo che suona la tromba. Il segnalibro tra le pagine da colorare. Per molti, per quasi tutti, insieme al Padre Nostro e all’Ave Maria, la preghiera all’angelo custode è la prima che impariamo. Ci si rivolge a lui, come se fosse un fratellino, un amico con cui giocare, un compagno di viaggio nei labirinti dell’infanzia, quelli che attraversiamo di corsa, quasi senza accorgercene, spesso con le ginocchia sbucciate.

Il problema nasce quando si diventa grandi e allora quasi mai, chissà perché, lo facciamo crescere con noi, quasi fosse un ostacolo, una fantasia che infastidisce, una password sbagliata per entrare nel mondo degli adulti. Parafrasando “Il piccolo principe” l’angelo custode diventa la fotografia bambina di chi dimentica di esserlo stato, il pelucheparcheggiato per sempre in soffitta, l’album di figurine che non guardi più. Colpa di una certa letteratura che confina la religione nel capitolo delle fiabe, del cinema che mescola Vangelo e spiritualismo new age, soprattutto colpa nostra. Di noi, che ci vergogniamo di ciò in cui crediamo, al punto da non crederci più.

Perché gli angeli non sono un’idea intellettuale, tantomeno una costruzione letteraria ma una presenza vera, reale di cui parlano apertamente le Scritture. Sono, come ha detto ieri mattina il Papa nell’omelia della Messa in Casa Santa Marta, «la nostra porta quotidiana alla trascendenza». Dio ce li affianca come compagni di vita, custodi, bussole, finestre aperte sull’infinito. È un angelo che ferma la mano di Abramo pronto al sacrifico di Isacco, che porta il cibo a Elia nel deserto, che annuncia la nascita di Cristo ai pastori, che compare in sogno a Giuseppe, che rivela a Maddalena e alle altre donne la risurrezione del Signore. Presenze “maiuscole” si dirà, come nel caso dell’Annunciazione a Maria, che poco hanno da spartire con le nostre piccole esistenze imperfette. La risposta è nella figura dell’angelo intercessore del Libro di Giobbe, soprattutto ce la dà Gesù che nel Vangelo di Matteo parlando dei bambini invita a guardarsi «dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli».

Ecco, i nostri compagni celesti hanno questo di meraviglioso e insieme umanamente inspiegabile: stanno al cospetto di Dio, gli offrono le nostre preghiere, ci spingono sulla via del bene, vigilano, nella misura in cui lo permettiamo, sulle nostre scelte quotidiane. «Io mando un angelo davanti a te per custodirti sul cammino e per farti entrare nel luogo che ho preparato – dice Dio a Israele nel Libro dell’Esodo –. Abbi rispetto della sua presenza, ascolta la sua voce e non ribellarti a lui». Sta a noi accettare quell’invito, cogliere l’opportunità legata a quel richiamo, non spegnere la luce che queste presenze tengono accesa sul nostro cammino. Invocarli, chiedere la loro vicinanza è un dovere di giustizia e una scommessa di futuro. Un gesto di riconoscenza e una firma, un tatuaggio verrebbe voglia di dire, della nostra appartenenza al cielo.

Lo hanno capito i santi, da Francesco d’Assisi a Padre Pio, da Francesca Romana a Tommaso d’Aquino, non a caso definito “doctor angelicus”. Testimoni della fede in cui la presenza dei messaggeri divini era costante, quotidiana, domestica. Capaci di viverli per quel che sono: «un ponte quotidiano», ha detto ieri il Pontefice, che ci unisce al Padre. 
Capirlo ci porta a chiedere scusa delle tante, troppe occasioni di bene perdute, a incamminarci su quel sentiero d’incontro spesso stretto e tortuoso. Perché l’angelo è come l’amico che ha il coraggio di dirti le cose che non vorresti sentire, che ti strappa alla rabbia in cui anneghi una delusione, che ti fa ridere delle sconfitte ingiuste. Che nel mondo degli uomini ti spinge a cercare i volti dei più fragili e più soli, che ti fa andare controcorrente e barattare la gloria effimera del successo con i doni immensamente più grandi della pace e del perdono. Quando Gesù vince le tentazioni del deserto e Satana se ne va, san Matteo racconta che degli angeli «si avvicinarono» al Signore «e lo servivano». Stare accanto e prendersi cura degli altri. Avvicinarsi e servire. Verbi che riassumono l’umanità più vera, quella che non si vergogna di alzare gli occhi al cielo. Verbi da angeli.

fonte: Avvenire