Il modo migliore e più corretto per aiutare un bambino a imparare a rapportarsi a uno smartphone è investire nell’educazione. Come genitori e come comunità. La questione dell’approccio alla tecnologia da parte dei minori è sostanzialmente educativa. Nel dirlo e nel ribadirlo occorre però tenere conto di due aspetti fondamentali. Il primo è che la povertà educativa non coincide necessariamente con quella economica, ed è spesso più diffusa e trasversale. Il secondo che educare, privatamente e collettivamente, significa anche saper dire dei no. E oggi si dovrebbe avere il coraggio di affermare che uno smartphone, inteso come strumento con libero accesso a tutti i contenuti della rete e a tutti i social network, non andrebbe dato quantomeno prima dei 12 anni.

Non è tanto un problema di norme: i social sono già vietati dai loro stessi codici prima di quell’età. Inutilmente. Ciò dovrebbe far riflettere. Un ragazzino di 10 anni è perfettamente in grado di andare da solo a scuola con uno “strumento” come un monopattino elettrico o un motorino: se non accade è perché tutti sappiamo che non saprebbe gestire una situazione complessa nel traffico. Una ragazzina di 13 anni è capace di ritirare da scuola la sorellina di 9: la scuola, giustamente, non lo permette. A quell’età, se “ben educati”, si può anche gestire un vero piccolo fucile personale: in certi contesti avviene, per fortuna la pratica attira meno dell’uso libero dello smartphone. Siamo sicuri che ci sia una differenza?

Anche grazie agli smartphone i nostri figli in questi mesi hanno potuto fare lezione e restare in contatto con gli amici. In realtà hanno solo usato una funzione marginale di questo strumento: tutto il resto non serve loro, non è adatto, e può «rubare l’infanzia» cui avrebbero diritto, come rileva Stefania Garassini nel manuale “Smartphone, 10 ragioni per non regalarlo alla prima Comunione (e magari neanche alla Cresima)”, dove la premessa è che «educare all’uso della tecnologia significa soprattutto educare».

Ripartire dai fondamenti della genitorialità, allora, significa anche ammettere che se abbiamo dato uno smartphone a un bambino, spesso è solo perché “lo avevano già tutti”, soggiacendo a una dittatura culturale che andrebbe invece capovolta se abbiamo veramente a cuore la questione educativa in senso comunitario. Uno smartphone genera dipendenza ed è una porta aperta su un mondo sconfinato che stiamo imparando a conoscere in tutte le sue sfaccettature: tanto noi adulti quanto i nostri figli abbiamo bisogno di un racconto pubblico che ci aiuti a individuare i nuovi pericoli, incominciando a definire cosa si può fare e cosa no.