Don Tonino Bello - Terziario Francescano - VescovoUn sabato qualunque, due del pomeriggio. Il cimitero di Alessano è pressoché deserto. È aprile ma il sole sembra quello di luglio. Una madre col figlioletto sgattaiola veloce a visitare una persona cara. Fa un rapido scarto a destra: si ferma davanti al piccolo anfiteatro circolare e alla lastra di pietra.

Una breve preghiera. Un segno di croce, e va. Pochi minuti e un paio di ragazze s’accostano. Fissano a lungo la pietra, il loro sguardo si sofferma su alcune brevi frasi – alcune fra le più famose delle sue espressioni – incise su rocce poste intorno alla tomba: «Ama la gente, i poveri soprattutto. E Gesù Cristo»; «In piedi, costruttori di pace»; «Ascoltino gli ultimi e si rallegrino». Un breve momento di silenzio e ritornano. 

È uno sfilare continuo su quella pietra scarna, adornata soltanto da una piccola croce e poche parole: «Don Tonino Bello, terziario francescano, vescovo di Molfetta-Ruvo-Terlizzi-Giovinazzo». Infine, le date: nato ad «Alessano, 18 marzo 1935», nel Salento, nel più profondo e povero Sud della Puglia; morto a «Molfetta, 20 aprile 1993», la città dov’è stato vescovo per quasi 13 anni e dove al funerale un oceano di 60 mila persone ha invaso l’intero porto.

Lo stanno facendo santo, don Tonino. La causa di beatificazione, avviata nel 2008 dall’attuale vescovo di Molfetta, monsignor Luigi Martella, si avvia alla conclusione della prima fase, quella diocesana. Poi la monumentale documentazione andrà a Roma, in Vaticano. Per la gente santo lo è già. Tanto a Molfetta quanto ad Alessano, tanto a Ugento, dove fu vicerettore del seminario, quanto a Tricase, dove fu parroco. Sono passati 20 anni, ma ogni luogo parla di lui: gli edifici ecclesiastici ma anche gli uffici pubblici, le piazze e le vie. Una foto oppure una dedicazione, una targa oppure una delle sue frasi celebri. Don Tonino ovunque. Mai monsignor Bello, tanto meno Antonio. Sempre e solo don Tonino, il «fratello vescovo povero con i poveri», quello col pastorale e la croce di legno (di ulivo, però, simbolo della sua terra), quello con l’appartamento episcopale invaso dai senzatetto e dai migranti stranieri, quello che girava per le strade del porto e della vecchia Molfetta sedendosi accanto ai poveri e agli ubriaconi, quello che aveva la porta sempre aperta, anche alla prostituta che gli aveva bussato alle quattro di mattina affamata e fradicia di pioggia. Ma anche quello che parlava di «pace, giustizia e salvaguardia del Creato come Trinità terrestre» e che tuonava contro chi voleva “militarizzare” la sua terra, la Puglia, mettendovi le basi degli F16, negli anni Ottanta.

Da presidente di Pax Christi, nel dicembre 1992, già gravemente malato, sfidò i cecchini di Sarajevo durante la sanguinosa guerra di Bosnia con Beati i costruttori di pace. Insieme a monsignor Bettazzi, a don Albino Bizzotto e al piccolo popolo di pacifisti di ogni provenienza, la “Marcia dei 500” violò l’assedio della capitale bosniaca, ma senza sfidare nessuno: convinsero i soldati a farli passare, consolarono le vittime di entrambe le parti, dispensarono aiuti tanto agli abitanti di Sarajevo che ai serbi. Don Tonino non accetterebbe che si scrivesse che era “alla testa del corteo”. Diciamo che stava in mezzo a loro. Santo per tutto questo? Certamente no, c’è molto e molto altro. Sei pagine di un giornale non possono raccontare la capacità profetica e l’odore di santità di don Tonino. Forse, possono darne un assaggio. Il 18 marzo 1993, a meno di un mese dalla morte, don Tonino compiva 58 anni. Era ormai costretto a letto, e si era fatto portare nella camera la sua icona preferita di Maria, la stessa che in precedenza teneva nella cappellina del vescovado dove aveva posto la scrivania, quando stava bene: a tarda sera si richiudeva lì a lavorare e a scrivere. La sera di quell’ultimo compleanno il cortile dell’episcopio si era improvvisamente riempito di giovani. Centinaia, con le chitarre, per fargli gli auguri cantandogli Freedom, libertà, e «Nulla ti turbi, nulla ti spaventi, solo Dio basta».

C’è un video che testimonia quel momento, lo si può vedere in Internet: «Avrei voluto farvi salire e abbracciare a uno a uno», disse a quei giovani, «ma non è possibile perché siete tantissimi. Chissà», aggiunse, «se il Signore mi darà la forza e la salute di mettermi non avanti a voi, come capofila, e neppure dietro di voi, ma in mezzo a voi. Non abbiate mai paura di essere carichi di utopie, di idealità purissime, soprattutto quelle che si rifanno ai grandi temi della pace, della giustizia, della solidarietà». Quasi un testamento spirituale. «L’augurio che mi fate ritorni su di voi, per la vostra vita, i vostri sogni, il vostro futuro. Vi voglio bene», aveva semplicemente concluso. Parole e gesti che ricordano così da vicino lo stile di papa Francesco. Che ne è stato di quelle centinaia di giovani? Quale segno portano dentro di sé di don Tonino? Tra Molfetta e Alessano ne abbiamo incontrati tanti.

«Tutto quello che sono lo devo a lui», ci siamo sentiti ripetere in continuazione. Dai “ragazzi di don Tonino” è nata la Fondazione don Tonino Bello, presieduta da Giancarlo Piccinni; l’editrice La Meridiana, guidata da Elvira Zaccagnino; uno di quei giovani, Guglielmo Minervini, è stato sindaco di Molfetta e oggi è assessore regionale in Puglia; Maria Mazzone, presidente della cooperativa sociale Adelphia gli dedica ancora oggi «la testimonianza delle nostre fatiche e dei nostri errori» nell’assistere con 180 operatori le comunità di disabili gravi, malati mentali e giovani in condizione di disagio sociale; Mimmo Pisani, vicedirettore della Caritas di Molfetta e responsabile della Casa d’accoglienza Don Tonino Bello, gli chiede aiuto «quando non ce la faccio più», racconta. «D’altra parte, poco prima di morire mi disse: “Ti raccomando il centro di solidarietà e i poveri”. Se un vescovo ti dice una cosa del genere, beh, gli dedichi la vita».

«L’eredità di don Tonino è pesante», sottolinea monsignor Luigi Martella, attuale vescovo di Molfetta. «Portarla mi è meno difficile perché l’ho conosciuto, e l’ho vissuto come un fratello maggiore, un punto di riferimento. Se il Signore mi ha voluto qui, dove lui prima di me è stato pastore, mi aiuterà anche a esserne degno».

Don Gigi Ciardo, parroco da 36 anni di Alessano, sottolinea che, insieme ai genitori, don Tonino è la persona più importante della sua vita: «Sono entrato in seminario quando era vicerettore», spiega. «Con lui ho imparato a leggere, mi ha formato come uomo e come prete, mi ha persino insegnato a nuotare. Portava noi seminaristi davanti a un albero e ci incantava parlando della bellezza del Creato. Oppure si usciva la sera in barca, suonava la fisarmonica e ci invitava a contemplare la luna che declinava sul mare. Quello che aveva di speciale è che ti faceva sentire unico e importante: quando aveva davanti una persona non esisteva nient’altro».

Don Gigi ricorda che quando stava per trasferirsi a Molfetta come vescovo, la sera prima andò a trovarlo. Si commosse e disse: «Presto vi dimenticherete di me». «Così gli ho telefonato tutti i giorni, per un anno intero», conclude don Gigi. «Da lui abbiamo imparato che il credente è l’uomo dalle mani aperte, perché non trattiene mai nulla e nessuno; è l’uomo dalle mani protese, perché fa sempre il primo passo; è l’uomo dalle mani giunte, nella preghiera. Ci ha insegnato l’accoglienza: davanti a una persona non si discute, la si accoglie».

«Quello che lo ha reso famoso da vescovo, noi lo avevamo già vissuto quand’era tra noi», aggiunge Giancarlo Piccinni. Viene eletto pastore di Molfetta nel 1982, dopo aver rinunciato due volte. Tre anni dopo diventerà presidente nazionale di Pax Christi, e saranno gli anni in cui si parlerà molto di lui in tutta Italia, per l’impegno infaticabile a favore della pace, ma anche per le posizioni “senza se e senza ma” che assume. L’episcopio di Molfetta diviene la sua nuova casa. Una casa dove, a chi bussa, apre il vescovo in persona. E bussano in tanti. Uno stile pastorale diverso, pioniere nel tentare di mettere in pratica quel concilio Vaticano II a cui aveva partecipato, come assistente di monsignor Ruotolo e che immediatamente aveva cercato di divulgare con corsi e lezioni in diocesi.

Interpreta uno stile di Chiesa che, con la Bibbia in mano, legge la Parola di Dio sfogliando anche il giornale. «È la Chiesa “della stola e del grembiule”, secondo una felice espressione di don Tonino», spiega don Mimmo Amato, vicario generale di Molfetta e vicepostulatore della causa di beatificazione. «Diceva che sono l’unico paravento della Chiesa, il diritto e il rovescio dello stesso unico vestito».

Gli immigrati sono già “un problema”, per tanta gente. E don Tonino allora invita lo straniero a bussare alla sua porta. «Perdonaci», scrisse nella Lettera al fratello marocchino, «se non abbiamo saputo levare coraggiosamente la voce per forzare la mano dei nostri legislatori. Ci manca ancora l’audacia di gridare che le norme vigenti in Italia, a proposito di clandestini come te, hanno sapore poliziesco, non tutelano i più elementari diritti umani, e sono indegne di un popolo libero come il nostro. Perdonaci, fratello marocchino, se noi cristiani non ti diamo neppure l’ospitalità della soglia».

«Sarebbe sbagliato dare dei suoi gesti e delle sue parole un’interpretazione ideologica», conclude monsignor Vito Angiuli, vescovo di Ugento. «La chiave di tutto il suo operato è mettere in pratica il Vangelo sine glossa e sine modo, cioè senza aggiunte o menomazioni. Ma anche senza confini e senza misura».

fonte: FamigliaCristiana.it

Tutta la forza delle parole di Don tonino Bello in questo video:

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