Remon Karam è un ragazzo di ventidue anni con tanta passione per la vita. A 14 anni è fuggito dall’Egitto, il suo paese d’origine, solo, senza la sua famiglia. La sua casa era diventata pericolosa per i cristiani copti dopo la prima vera araba egiziana, a causa delle persecuzioni dei fratelli musulmani. Remon non andava più tanto spesso in chiesa per paura che qualcuno potesse fargli del male, aveva costantemente paura che qualcuno potesse picchiarlo o ucciderlo.

Remon è scappato per sfuggire alla persecuzione contro la sua religione, per riuscire a realizzare i propri sogni ed essere capace di realizzare il suo futuro.

La sua storia è raccontata nel libro “Il mare nasconde le stelle” di Francesca Barra e vuole essere una denuncia sociale, uno scoprire le carte su quella che è la realtà vera dell’immigrazione.

Ho avuto il piacere e l’onore di intervistare Remon e lo ringrazio per il suo coraggio e per la sua determinazione nel desiderare un mondo migliore, una politica migliore non solo a parole, ma con fatti concreti.

Ciao Remon, quando hai capito che saresti partito?

Ciao Anna! Ho capito che sarei partito quando ho avuto tutte le dimostrazioni che stare in Egitto non era più un posto sicuro per me, a causa di tutte le problematiche legate alla religione.

Non avevo nessuno che mi potesse aiutare a realizzare un futuro vero, a farmi vivere da persona libera, senza paura di essere picchiato o ucciso da qualcun altro.

Quando ho chiamato gli scafisti insieme a mio cugino e abbiamo visto l’organizzazione del viaggio, ho capito che stavo andando via. Mentre la consapevolezza vera e propria forse ce l’ho avuta solo quando i trafficanti mi hanno tenuto chiuso per cinque giorni in una stanza ad Alessandria, in attesa che mio padre pagasse 40.000 gunayh (4mila euro circa) per farmi continuare a vivere. Lì ho capito davvero cosa stessi facendo.

E quando hai capito che saresti sopravvissuto alla traversata?

Il 17/07/2013 ho poggiato il piede sul molo di Portopalo e mi sono venuti i brividi. In quel momento ho pensato: “Sono sopravvissuto. Non importa da dove vengo, non importa il mio passato, ora importa solo che sono vivo e sono pronto a cominciare una nuova vita e costruire un nuovo futuro.”

In quel momento ho sentito una svolta dentro di me.

Com’è stato integrarti in una nuova cultura, hai trovato tante differenze? Qual è la cosa che più ti manca dell’Egitto?

All’inizio le uniche difficoltà erano legate alla lingua, perché non sapevo parlare l’italiano, allora capitava che i miei compagni di scuola mi prendessero in giro per qualche parola sbagliata che dicevo.

La cosa che mi manca tanto dell’Egitto è il contatto umano che qui in Italia non ho ritrovato. Forse anche a causa della tecnologia e della modernizzazione. In Egitto si parla di più con le persone, c’è una cultura diversa nello stringere rapporti veri, piuttosto che virtuali.

Per fare un esempio, in 14 anni in Egitto non ho avuto il cellulare e sono stato benissimo, mentre qui in Italia è quasi impensabile starne senza.

All’università poi hai studiato ingegneria informatica, come racconti nel libro? O hai cambiato idea?

Arrivato a dover scegliere l’università, ho capito che l’informatica non era più il mio forte.

Mi sono appassionato alle lingue, anche perché conosco bene l’arabo e potevo sfruttare questa conoscenza. Quindi ho scelto la facoltà di Lingue.

Cosa vuoi fare “da grande”?

Vorrei diventare ambasciatore o almeno lavorare nell’ambasciata. Oppure lavorare nel Parlamento Europeo. Mi piacerebbe fare qualcosa che possa tener conto delle mie origini, quindi mi piacerebbe lavorare a contatto con temi come l’immigrazione e stare in questo ambito politico-giuridico.

Cosa sarebbe successo se non fossi scappato qui in Italia? Pensi che rifaresti questa scelta?

Se fossi rimasto in Egitto, penso che un futuro vero non l’avrei mai avuto. Penso anche che la scelta di scappare così non l’avrei fatta un’altra volta. Davvero ho sofferto tanto, ho avuto paura di morire e ora che so cosa ho passato e so cosa ho vissuto, non rischierei ancora la vita così.

Perché hai voluto scrivere il libro e com’è nata la collaborazione con Francesca Barra?

Con Francesca Barra ci siamo conosciuti per puro caso.  In un’assemblea d’istituto del liceo di Augusta che ho frequentato, c’era Francesca Barra e così una mia professoressa mi propose di presentarmi a lei per raccontarle la mia storia. Sono andato lì e le ho detto solo il mio nome e che ero venuto dall’Egitto con un barcone. Allora lei mi ha chiesto il numero, perché ne avremmo potuto riparlare. E così da un articolo che scrisse per il Corriere, nacque l’idea di scrivere un libro.

Volevo far sentire la voce mia e di tutte quelle persone che non ce l’hanno fatta o di chi ce l’ha fatta e non ha il coraggio di parlarne. Nei miei primi anni in Italia non ho mai parlato a nessuno della mia storia, non la conoscevano nemmeno i miei genitori adottivi, Marilena e Carmelo. Era una ferita scoperta e mi faceva tanto male.

La tua storia come può cambiare lo sguardo sulla realtà dell’immigrazione?

Molto spesso guardavo la TV e sentivo parlare solo di numeri e mai di esseri umani, sentivo parlare solo di scafisti e crimini e mai di storie di sofferenze. Purtroppo viviamo in un mondo dove si paga per tenere la verità nascosta, dove si pagano i criminali per affondare le barche piene di immigrati, dove viene sempre accentuata l’azione negativa di un immigrato e mai quella di un italiano. Molto spesso facciamo di tutta l’erba un fascio senza pensare che ogni essere umano è indipendente dall’altro.

Allora scrivere il libro è stato un voler dire: “Guardate che non è così, io ho sofferto tanto per arrivare in Italia e tanti altri muoiono.”

Cosa hai pensato quando la notte eri in mare da solo?

A un certo punto scrivi: «Questa volta il Signore […] mi ha donato uno slancio incredibile. Sapevo che non mi avrebbe abbandonato.» In quali momenti particolari hai sentito la Sua protezione? Questa certezza continua ad esserci nella tua vita?

La certezza che Dio c’è continua ad esserci in me al 100 %.

Durante il viaggio ci sono stati mille momenti in cui ho pensato che Dio fosse con me. Bastava vedere le stelle, vedere come una di loro brillasse mentre parlavo con Lui: per me è stato una specie di segnale di speranza. Non facevo altro che pregare, che chiedere a Dio di aiutarmi.

Io che sono stato sempre fifone, anche quando ho dovuto saltare da una barca all’altra ho pregato al Signore di non farmi cadere. Poi atterrando mi sono sbucciato il ginocchio, ma comunque non ho mai smesso di contare su di Lui in momenti difficili come sempre. Ho avuto tanta paura, ma il Signore non mi ha abbandonato.

Cosa pensi del problema dell’immigrazione? Dico “problema” perché è un problema dover scappare per poter vivere senza rischiare la pelle.

L’immigrazione non era un problema, lo è diventato perché gli Europei e gli Americani nel Novecento hanno colonizzato i paesi dell’Africa che di base sono ricchi. Quei paesi sono diventati poveri perché qualcuno si è andato a rubare la loro ricchezza.

Ricordo che comunque l’Italia finanzia miliardi di euro all’anno alla Libia, per uccidere gli immigrati o per farli affondare o per farli catturare e rinchiuderli nei campi di concentramento. Questa situazione non è molto lontana a ciò che successe agli ebrei nella Seconda Guerra Mondiale.

Uomini e donne oggi vengono uccisi, massacrati, torturati, costretti a lavorare come schiavi.

Come giovani cosa pensi che possiamo fare, nel nostro piccolo, per aiutare?

Ogni giovane può non stare zitto. Io ho fatto sentire la mia voce e se ognuno lo facesse, se tutti si ribellassero contro l’ingiustizia e la cattiva politica, forse qualcosa cambierebbe.

Vediamo ogni giorno tante cose sbagliate, ma chiudiamo sempre un occhio perché non ci conviene mai avere un immigrato per amico, averlo in casa, averlo a lavoro. E allora si sta zitti, ma si potrebbe anche non starci. Perché siamo tutti responsabili e il silenzio è comunque una scelta.

Cosa pensi quando senti la famosa sentenza “Aiutiamoli a casa loro”?

L’altra faccia della medaglia di “aiutiamoli a casa loro” è “li abbiamo distrutti a casa loro”. Aiutarli a casa loro per molti politici vuol dire pagare la Libia per salvare dal mare le persone (cosa che non è vera, come spiegavo prima).

Aiutare, invece, è collaborare col governo, costruire le scuole e strutture, aiutare davvero ad eliminare la schiavitù. Già semplicemente creare una scuola sarebbe un grande aiuto. È chiaro che aiutare non significa far arrestare le persone e metterle in prigione.

Foto dall'archivio Ansa

Discriminazione [Der. del lat. discriminatio, -onis “scelta”, atto ed effetto del separare un segnale da altri di caratteristiche diverse.

Come recita Treccani, discriminare non è in sé un atto negativo, ma come ci insegna la vita, spesso lo è. Quale pensi che sia la differenza e il limite di questa “separazione”?

Nel momento in cui c’è il pregiudizio nasce la discriminazione. C’è discriminazione se penso a persone di serie A, di serie B, C e D.

Quando arriva un barcone, perché dico “sono arrivati dieci neri” e non “dieci esseri umani”? C’è differenza nel mio sguardo quando guardo le persone, ma il valore di ognuno non è dato dal colore della pelle o dalla provenienza. Pensando a tutti come persone e basta si andrebbe a creare un mondo fluido, nella sua varietà.

La discriminazione tra gli uomini l’abbiamo fatta nascere, ma per fortuna davanti a Dio siamo tutti uguali. Non possiamo giudicare chi nasce nel terzo mondo o nei paesi in guerra, nessuno può scegliere dove nascere, perché alla fine è tutta questione di fortuna. Sono fiero di essere un immigrato perché mi ha reso un uomo migliore, capace di valorizzare il vero senso della vita.

Sogni e progetti per il futuro?

Voglio aiutare a cambiare il futuro dell’immigrazione e cambiare la politica nei confronti di questo tema.

Il mio sogno è quello di fare qualcosa per cambiare il mondo e ci riuscirò.